Se il paesaggio agrario della Puglia è fortemente caratterizzato, soprattutto per la presenza dell’ulivo, non di meno lo è il sottosuolo, in particolare delle aree carsiche, dove si è diffusa la pratica della “costruzione” ipogea.

Si tratta, nella fattispecie, di veri e propri frantoi, detti anche trappeti, dal latino Trapetum o Trapetus.

L’ingegno dei contadini, da sempre alle prese con condizioni climatiche avverse e incalzati dalla necessità di far fronte a periodi di carestia non inconsueti in passato, ancora una volta ha dato risposte concrete a due ordini di problemi: evitare la solidificazione dell’olio a causa delle basse temperature invernali e dotarsi di strutture adeguate per la sua lavorazione senza l’onere economico della costruzione di un edificio.

Ricavare i frantoi scavando nei terreni tufacei o calcarei, particolarmente votati a questa prassi, è stata la risposta.

L’olio solidifica a 6 gradi. Nel sottosuolo la temperatura, costante e più elevata anche grazie ai grandi lumi che ardevano giorno e notte – oltre che per il processo di fermentazione delle olive – consentiva all’olio pur nella stagione invernale di conservare la sua naturale fluidità, rendendo con ciò più agevole l’estrazione, la raccolta nelle vasche e il deposito delle impurità durante la fase di decantazione.

Old mill underground at Gallipoli in Salento, Italy

Ma non è tutto, i “trappetari” sapevano bene che costruire un edificio ex novo avrebbe comportato dei costi quasi sempre insostenibili, tra manodopera specializzata, acquisto e trasporto dei materiali da costruzione. Scavare nel sottosuolo, al contrario, richiedeva una manodopera certamente non specializzata – dunque meno costosa – e nessun impiego di materiali da costruzione.

I frantoi ipogei sono stati costruiti con questa logica fino alla metà del Settecento e utilizzati, anche se sporadicamente, fino alla metà del XX sec., diffondendosi in particolare ma non esclusivamente, nell’area salentina.

A seconda della struttura più o meno complessa, i frantoi ipogei si distinguono tra verticali e orizzontali ma tutti presentano un sistema di macchine costituito da una grande macina di pietra circolare, azionata da un mulo che gira in tondo, un torchio grande, uno piccolo e le varie attrezzature necessarie per la raccolta e lo stoccaggio dell’olio.

In particolare i torchi, in prevalenza costruiti con legno di quercia o di ulivo, si era soliti classificarli nei due tipi “genovese” e “calabrese”, il più diffuso. Il torchio cosiddetto “alla calabrese” era costituito da una grossa trave orizzontale, detta “pancone”, attraversata da due viti filettate verticali e incassate su plinti di calcare duro.

Questo fu il sistema più utilizzato fino alla fine del Settecento. Il torchio “alla genovese”, così chiamato per la larga diffusione a Genova e in tutta la Liguria, fu invece introdotto in Puglia nei primi anni dell’Ottocento e presentava una struttura più complessa.

Incastrato tra due pilastri di pietra, o in una nicchia scavata nel calcare, era composto da una madrevite fissa, posta in alto, all’interno della quale scorreva una vite mobile.

La vite, a sua volta, presentava dei fori nei quali si inseriva una stanga per stringere il torchio.

A partire dal XIX secolo queste strutture furono progressivamente dismesse per lasciare il posto ai moderni frantoi, prima semi-ipogei e poi definitivamente costruiti in superficie.

Oggi è ancora possibile visitare quel che resta di queste mirabili architetture sotterranee alcune delle quali conservano, oltre che le grandi macine di pietra e le vasche per la raccolta dell’olio, le decorazioni di fattura elementare, primitiva che impreziosiscono le pareti scavate nella roccia, evocative di atmosfere quasi religiose che ancora aleggiano in questi luoghi di antiche fatiche.

Tra i frantoi ipogei meglio conservati, una visita meritano certamente i frantoi di Grottaglie, il frantoio “Lagopagliaro” a Ostuni, il “Granei” di Sternatia e il frantoio “Caffa” a Vernole. 

 

Foto di Archivio

Agenzia Xeniaplus

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